Hamdan Jewei a Story of a Survival Keeps Going despite Difficulties & Life Challenges!!!My Ex- Organization Lighting Candles For Developing Abilities

7 Oct

Hamdan Jewei a Story of a Survival Keeps Going despite Difficulties & Life Challenges!!!My Ex- Organization Lighting Candles For Developing Abilities- Atia A Blind Young Man Was Helped Coming Over His Life Living Crisis 2 Part Video

7 Oct

Alcuni bimbi palestinesi con disabilità non hanno mai visto il sole!

9 Sep

In Palestina le famiglie più povere e prive di un’educazione tengonosegregati in casa i figli con disabilità, per evitare quella checonsiderano una vergogna sociale. Hamdan Jewe’i ha vissuto i suoi primiundici anni chiuso in una stanza. Oggi ne ha 26 ed è venuto in Italia acercare un partner per creare nella sua terra un centro dove le personecon disabilità possano lavorare e in questo modo riscattarsi socialmente

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Hamdan Jewe’i è giovanissimo, ha solo 26 anni, e fa parte di undici organizzazioni, tra locali, nazionali e internazionali, quattro delle quali fondate da lui stesso.È palestinese e vuole che nella sua terra le persone con disabilità possano godere degli stessi diritti e farsi carico degli stessi doveri di tutti gli altri. Venuto in Italia per seguire un corso intensivo sui diritti umani e lo sviluppo della cooperazione internazionale, in questi giorni e prima della sua partenza a fine mese sta incontrando diverse realtà locali in giro per la penisola, allo scopo di trovare un partner che collabori alla realizzazione di un suo ambizioso progetto. Hamdan vuole infatti creare in Palestina un centro che ha chiamato GEDD (Gateaway Enterprise for Disabled Development), dove offrire posti di lavoro alle persone con disabilità.Nato a Betlemme, è egli stesso persona con disabilità. Ha subito numerosi interventi chirurgici alle gambe e cammina sostenuto da un paio di stampelle.

Che significato ha il GEDD nella tua terra?«Un significato importantissimo, un segnale in controtendenza in uno Stato che non prende in considerazione a nessun livello i propri cittadini con disabilità che sono tantissimi, 170.000, di cui molti vittime di episodi di guerra».

Che cosa offre lo Stato sociale alle persone con disabilità in Palestina?«Nulla. Non c’è nessun sistema sociale, non abbiamo una pensione, non un’assicurazione né alcun altro tipo di sostegno governativo. Le famiglie con figli disabili, dunque, si trovano completamente sole. E non basta. Perché per quelle più povere c’è anche un problema culturale, legato alla tradizione radicata nei villaggi e nei paesini che collega la venuta al mondo di un figlio non sano a un episodio di vergogna sociale. Molti figli vengono tenuti nascosti e mai fatti uscire di casa. Alcuni non hanno mai visto il sole. In questo senso abbiamo grossi problemi a livello di educazione. Molte persone non hanno idea di come comportarsi con un figlio disabile e non ricevono alcun aiuto. Non c’è alcun sistema educativo che aiuti le famiglie a capire che anche i figli con disabilità possono diventare qualcosa di significativo per il futuro e per la società».

Una vicenda simile è capitata anche a te.«Sì. Da quando sono nato, fino al mio undicesimo anno di età, sono rimasto chiuso in una stanza all’interno della mia casa. Non sono mai uscito e non vedevo nessuno, nemmeno la mia famiglia. I miei genitori sono poveri e di estrazione culturale molto bassa. Mia madre si è sposata a 14 anni e mio padre da quando ne aveva 8 lavorava insieme al suo. Hanno sempre abitato in un villaggio, senza alcuna forma di educazione e non avevano gli strumenti per capire come comportarsi con me, non erano abbastanza “civili” per capire il concetto di integrazione sociale. Nel mondo arabo la famiglia è una struttura sociale fondamentale che impone le proprie tradizioni a tutti i membri della sua comunità. È impensabile non seguire le tradizioni dei propri nonni».

Come hai fatto a uscire da quella stanza?«In undici anni di reclusione avevo sviluppato dei problemi psicologici, ero molto violento. Un giorno mia madre ha aperto la porta e io prima l’ho aggredita e poi sono scappato. Ho corso fino alla strada. Uno dei vicini – venuto a vedere cosa stesse accadendo – riuscito a prendermi e a portarmi a casa sua. Quando mi sono tranquillizzato gli ho raccontato la mia storia. Lui non sapeva neppure della mia esistenza. Ha provato a riportarmi a casa, ma inizialmente mia madre mi ha rifiutato perché mi giudicava un “peso morto” e una vergogna per la famiglia, un disabile senza speranze».

Un’altra immagine di Hamdan Jewe’i durante una delle sue attività in PalestinaTi sei riconciliato con tua madre?«Non ha agito con cattiveria, era solo ignorante. Una volta alla radio locale ha ascoltato un programma sulla disabilità e ha telefonato subito in diretta parlando di me e chiedendo consigli, ammettendo di non sapere cosa fare. Mi ha riaccolto in famiglia e si è scusata. Tuttora, quando incontriamo amici di famiglia che però io non conosco, fingo di aver vissuto a lungo fuori dalla Palestina, per non creare imbarazzo. La prima cosa che ha fatto la mia famiglia riaccogliendomi è stata quella di inserirmi in un centro sportivo dedicato anche alle persone con disabilità. Anche se non sono diventato uno sportivo, rapportandomi con le persone ho capito che quello che mi interessava era tessere relazioni per costruire una rete sociale. Tramite questo centro la mia famiglia e io stesso siamo stati seguiti da uno psicologo ed è stato lui a invitarmi a partecipare a un campo di lavoro vicino a Betlemme. Lì – era il 1999 e avevo 13 anni – mi sono innamorato dell’Italia».

Come mai?«Ho partecipato al campo per 21 giorni e ho conosciuto un gruppo italiano del Servizio Civile Internazionale. Sono stati molto simpatici con me, mi hanno trattato bene e per la prima volta ho cominciato a sentirmi più sicuro di me stesso.Poi, l’anno dopo, ho vissuto un’altra esperienza importantissima perché il coordinatore del gruppo, un italiano, mi ha ospitato nella sua casa e mi ha coinvolto in una serie di attività con altre persone con disabilità. Da lì non ho più smesso di fare corsi ed esperienze formative che mi portano oggi a sentirmi molto sicuro di quello che dico: le persone con disabilità hanno diritto a una vita dignitosa al pari di tutti gli altri».

Sei diventato un giovane socialmente molto attivo.«Ho partecipato a moltissimi convegni e ad altri eventi, ho fondato delle associazioni come la Lighting Candles, nel 2005, per aiutare i giovani palestinesi a ritrovare fiducia in se stessi, nonostante le dure condizioni di vita sotto l’occupazione israeliana, in uno Stato la cui economia è morta e i punti di controllo degli occupanti sono 750.Sono diventato un consulente freelance sull’argomento disabilità. Incontro personalmente le famiglie e offro anche un supporto psicologico. Cerco di mettermi in contatto con situazioni di segregazione allo scopo di sbloccarle».

E come fai?«Soprattutto con il passaparola. Nei villaggi le notizie passano velocemente di bocca in bocca, così, quando arrivo, si fa presto a far sapere a tutti che sono in grado di offrire un aiuto a famiglie che hanno persone con disabilità in casa.Mi è capitato ad esempio tre anni fa di incontrare un uomo che mi ha confessato di tenere rinchiusa la propria figlia con problemi psichici nel sottoscala da vent’anni. Non ne aveva registrato neppure la nascita e quando l’ho invitato a farlo, per dare finalmente un riconoscimento formale alla sua esistenza, si è spaventato e non è più tornato. Si vergognava troppo del giudizio sociale. Temeva di perdere il rispetto e di venire deriso. Oggi purtroppo di questa ragazza non so più niente».

Perché ritieni che l’Italia possa avere un ruolo nel cambiare questa situazione?«Vorrei trovare qui un partner che credesse nel mio progetto. Se fosse italiano sarebbe un sogno perché, come dicevo, sono innamorato dell’Italia. Vorrei che insieme si riuscisse ad aprire questo centro, cambiando la vita a molte persone in Palestina».

Questa è la prima volta che vieni in Italia?«No, nel 2005 ero già venuto dagli amici conosciuti a Betlemme per poter usufruire della sanità italiana e ricevere delle cure. In Palestina, oltre al fatto che non c’è alcun servizio ospedaliero gratuito, il livello di preparazione e la ricerca medica sono arretrati rispetto all’Italia».

Quali sono le caratteristiche principali del GEDD che ti immagini?«Mi sono ispirato a un modello inglese che integra una situazione profit con una situazione non profit. Voglio rivolgermi alle persone con disabilità e alle loro famiglie, offrendo corsi di formazione professionale e artigianale e poi occasioni di inserimento lavorativo, in modo da essere fautori di integrazione sociale, al di fuori ma anche all’interno delle famiglie stesse».

http://www.superando.it/content/view/6246/112 (Barbara Pianca)

Incontro il giovane disabile palestinese Hamdan Jewe’i

9 Sep

Care Associazioni attive nel settore della disabilità,

vi ribadiamo l’invito a partecipare all’incontro del 19 luglio alle ore
18.30 presso il nostro sportello di Ancona (Via della Montagnola 69/a)
con *Hamdan Jewe’i, *Founder dell’Associazione “Lighting candles for
…developing abilities” di Betlemme, attivo collaboratore di molte altre
organizzazioni locali, regionali e internazionali che si occupano di
disabilità, solidarietà e cooperazione internazionale, protezione
sociale, educazione, difesa dell’ambiente e dei diritti politici.

Hamdan Jewe’i, palestinese, è un giovane disabile che combatte per
includere tutti i tipi di disabilità in una terra come la Palestina dove
l’handicap si vive di nascosto. Nonostante la giovane età, Jewe’i è
davvero un personaggio carismatico. Nel suo Paese l’handicap è ancora
motivo di vergogna nei confronti del mondo esterno e lui ha vissuto in isolamento per molti anni per poi “risorgere”.

Jewe’i è’ in Italia invitato da Amnesty International Italia e dal
Centro Interuniversitario di ricerca per lo sviluppo sostenibile
dell’Università La Sapienza di Roma.

ll CSV ha colto la preziosa occasione della presenza in Italia di Hamdan
Jewe’i per confrontarsi sulla situazione delle persone disabili in un
paese come la Palestina anche con l’obiettivo di *costruire rapporti di
collaborazione con associazioni marchigiane* che si occupano di disabilità.

Sarà un momento di crescita e confronto per tutti coloro che vorranno
partecipare con un personaggio di livello internazionale che con la sua
concezione di *“pari partecipazione*” ha trasformato la sua disabilità
in abilità per affrontare le difficoltà e le sfide della vita in una
terra difficile come la Palestina.

*Workshop, leadership, conferenze, seminari, campi scuola:* la vita di
Hamdan Jewe’i con disabilità si è trasformata in un *esempio da seguire*
in una società, come quella palestinese, in cui talvolta è difficile
l’attuazione dei diritti umani specialmente nei confronti nei confronti
delle persone con esigenze speciali.

Un personaggio come punto di riferimento per quanti vivono
quotidianamente la disabilità.

Hamdan Jewe’i ha creato una vasta rete di contatti, proficue
collaborazioni con esperti e reti locali ed internazionali che mette a
disposizione del Centro Servizi per il Volontariato.

Vi aspettiamo quindi il 19 luglio!

Orario di apertura:
lun. merc. e ven. 15.30 – 19.30
mart. e giov. 9.00 – 13.00

tel. 071/894266 – fax 071/2814991
N. Verde 800 651212 int. 2
mail: ancona@csv.marche.it
sito: http://www.csv.marche.i

8 Sep

Anna Maria Giordano Intervista Con Hamdan Jewe\'i Da Betlemme 14/07/2010 – Il Portogallo due gradini più in basso

8 Sep

Hamdan Jewei’s

8 Sep

GEDD Call First Pilot Project Searching for Micro-Finance for Women Empowerment

4 Sep

Gateway Enterprise for Disabled Development (GEDD) It’s Time to Raise Up the Voice of Women Rights GEDD Call First Pilot Project Searching for Micro-Finance for Women Empowerment Developing Social Economical Situation of Diabetic Mothers and Disabled in Palestine if you are Interested Please Write me back for more Information and details!!!!!

Intervista a Hamdan Je’we: “essere disabili a Betlemme”

26 Aug

Questa settimana “arabi&israeliani” si apre a un’intervista a carattere sociale sul problema della disabilità in Palestina, presentato attraverso un colloquio con Hamdan Je’we, giovane fondatore dell’associazione “Lighting the candles” a Betlemme, lui stesso disabile e protagonista di una storia molto particolare.

Hamdam, presentati ai lettori di Medarabnews..

Buongiorno. Mi chiamo Hamdan e sono fondatore e volontario in un’associazione giovanile che si chiama “Lighting the candles”, avviata a Betlemme alcuni anni fa; ho 26 anni.

26 anni, tanti o pochi in Palestina?

Tanti, non siamo più considerati “giovani” qui ma lo restiamo “nel cuore”.

La mia storia è stata un po’ difficile: sono nato con una disabilità fisica alle gambe, che non mi permetteva di camminare. La disabilità è un problema grave, perché implica una dimensione sia fisica che mentale e culturale.

Nel mio caso, sono stato isolato fino a 11 anni perché qui la situazione dei disabili è considerata soltanto un problema, o meglio una tragedia grave che colpisce l’intera famiglia.

Se guardiamo a livello sociale, come le famiglie e in generale la cultura arabo-palestinese trattano le persone disabili, è davvero difficile la situazione per chi nasce con questi problemi.

Non tanto perché non sappiano che fare, come aiutarle; ma per l’educazione, la mentalità, il background culturale delle famiglie, generalmente molto tradizionale. Non le aiutano a diventare indipendenti, ad andare avanti con la loro vita. Non pensano nemmeno che possano avere una vita autonoma.

Perché non li aiutano?

Prendiamo il mio caso: io sono stato isolato dentro una stanza a casa dei miei genitori fino ad 11 anni. Perché per loro era una cosa strana avere un bambino così, diverso dagli altri. Anche per i miei fratelli e sorelle era strano.

Chi nasce così in Palestina si pensa non potrà mai avere una vita normale, perché una persona diversa fisicamente non è considerata uguale agli altri perché non può fare le stesse cose degli altri.

Io ho avuto l’opportunità d’andare avanti con la mia vita, un po’ per caso, con un pizzico di fortuna,

perché mia madre un giorno ha aperto la porta della mia stanza e – non so se vi immaginate come sia stare chiusi in una stanza per anni, o anche non per anni ma solo per tante ore di seguito, è come quando si mette un gatto in una scatola, e quello che era un animale bello, carino e docile diventa aggressivo come un matto – così è successo a me: sono uscito da quella stanza fuori di testa.

Ero impazzito psicologicamente.

Io sono una persona come le altre, una persona normale, che aspira alla libertà, alla dignità, alla vita, aspirazioni che per gli altri sono normali, scontate.

Volevo soltanto essere una persona uguale alle altre.

E invece come trascorrevi la tua vita a casa, in famiglia?

Passavo il mio tempo tra l’ospedale, qualche associazione e poi di nuovo a casa.

A casa ero isolato, senza poter vedere nessuno. Non avevo amici e non conoscevo né la mia famiglia né gli altri parenti. Tanto che quando finalmente sono uscito, i miei parenti si chiedevano chi fossi, perché non mi avessero mai visto. Io dicevo loro il mio nome e loro si rendevano conto che ero parte della famiglia.

Sono uscito soltanto per caso perché un giorno sono scappato e fuggito in strada, e mi ha visto un vicino e mi ha chiesto chi ero, che era successo, anche lui non sapeva chi fossi, dato che non m’aveva mai visto nonostante io fossi sempre stato lì a due metri.

Quando si ha un disabile in casa in Palestina, si insinua la cultura della vergogna: la famiglia si sente in “colpa” di avere un figlio così, d’avere una persona disabile in famiglia.

Quanto ti sono mancati amici della tua età?

A livello sociale è stato molto duro. Oggi sono una persona totalmente diversa.

Quando ho avuto la prima opportunità di uscire di casa, sono andato in un centro sportivo per disabili vicino a Beit Jalla (una frazione di Betlemme). Mia madre aveva chiamato un programma radio e aveva chiesto al presentatore come aiutare suo figlio disabile, allora le era stato detto di questo centro.. ma io purtroppo non sono una persona sportiva! Piuttosto una persona socievole, che aveva tantissimo bisogno di contatti umani..

Raccontaci cosa è intervenuto a modificare profondamente il corso della tua vita…

Sono stato 6 mesi a questo centro sportivo, poi piano piano ho cominciato a guardarmi intorno. Avevo tanta voglia d’andare avanti.

Se penso a 15 anni fa, ho avuto bisogno di una tale determinazione per andare avanti! Ho iniziato facendo volontariato in organizzazioni per anziani, per bambini e alla fine per disabili.

E piano piano sono stato accettato dalla società, anche se c’è voluto tempo per superare la diffidenza. Credo però che quando prendi la decisione d’andare avanti con il tuo futuro, quando raccogli il coraggio, poi alla fine i cambiamenti seguono.

La tua famiglia non è stata un ostacolo?

La famiglia era contro il cambiamento, psicologico e culturale, che ho vissuto. Era contro i cambiamenti in generale. Anche perché è stato un cambiamento forte anche per lei.

Riconoscere che potessi essere e comportarmi come una persona normale, è stato un passaggio forte. A livello culturale non è stato facile. Dovete considerare che non si trattava solo della mia famiglia, ma di un contesto culturale e sociale.

Le mie sorelle avevano problemi quando volevano sposarsi perché le famiglie si informavano sul fatto che vi fosse un disabile a casa, e le malattie genetiche mettono paura.

Qui in Palestina domina una mentalità molto tradizionalista.

Non era solo un problema singolo della mia famiglia, la quale è stata a sua volta vittima della società, che le ha imposto la cultura della vergogna.

Che rapporto hai oggi con loro?

Oggi è buono. Ho capito perché lo hanno fatto. Non era colpa loro.

Parlaci di come sei venuto in Europa e come ti ha cambiato quest’esperienza inattesa..

Ho sempre cercato un modo per curarmi e studiare e lavorare: avere delle prospettive di cui non avrei usufruito in Palestina. Sono venuto in Italia per caso perché ho incontrato vicino alla Chiesa della Natività (a Betlemme) la notte di Natale un volontario inglese e un ragazzo italiano con cui siamo diventati amici. Li ho invitati a casa mia e ho raccontato loro la mia storia. Poi sono andato prima in Germania e dopo in Italia.

E poi un giorno nei dintorni di Fontana di Trevi a Roma il mio amico italiano Filippo mi ha fatto incontrare un medico dell’ospedale di Colleferro che mi ha operato più volte per raddrizzare le mie gambe. Non potevo recuperare del tutto, ma sono stato capace di camminare meglio. Sono rimasto in Italia 8 mesi, abitando a Roma.

Qual è stata la tua prima impressione dell’Italia?

La gente era completamente diversa. Per me era tutto strano, la cultura, la lingua. Pian piano, con la forza che avevo, ho imparato la lingua e conosciuto tante persone.

E’iniziato tutto grazie agli amici italiani e all’amico inglese, ma all’inizio ero completamente solo e ho avuto anche molti problemi di adattamento. Ho avuto anche bisogno di tanto aiuto. È stata un’esperienza difficile.

Lentamente sono riuscito a comunicare, e adesso ho tanti contatti in tutta Italia. Per me essere in Italia è stata un sogno. Poi è venuta la chiamata della “terra natia”, avevo desiderio di ritornare in Palestina. Avvertivo anche una certa pressione da parte della mia famiglia, ma quando sono tornato a Betlemme non ero la stessa persona che ero prima.

Io vengo da una famiglia molto tradizionale, dura. Quando sono tornato, la mia mentalità era molto cambiata. Quando tu esci da una cultura per apprenderne un’altra, quando passi da una società religiosa ad una laica – da noi la religione è molto importante e presente – non puoi non attraversare dei cambiamenti sostanziali. Prima dell’Italia e per tutta la mia infanzia, io ero molto vicino a Dio, passavo molto tempo in moschea, perché noi uomini quando affrontiamo un dolore, una vita complicata, troviamo conforto nella preghiera e sentiamo il bisogno di riflettere e ringraziare. Io sono stato molto vicino a Dio proprio perché ho avuto una vita difficile. Prima ogni mattina, quando uscivo di casa, andavo in moschea, ma poi, dopo che ero stato in Europa, sono cambiato. Solo la mia famiglia non ha capito né accettato, e ancora oggi ciò costituisce un problema tra noi.

In che senso sei cambiato?

Mi chiedevano continuamente con chi ero stato. Non si immaginavano tante cose della società italiana ed erano preoccupati.

Mi chiedevano ad esempio come si comportavano le donne lì, se fossi stato a casa di qualcuno che non conoscevo. Non potevo stare a casa di qualcuno che non conoscevo, soprattutto a casa di donne era molto sconveniente. Non sarebbe stato rispettoso per loro.

Esser ospitati da una donna “straniera”, sconosciuta, che non è tua moglie, né tua madre né tua sorella, non è ben visto. In Palestina le cose che puoi fare sono di meno. L’Italia sembra un mondo pericoloso.

Avevano più paura quando sei partito o tornato?

Io non ho pensato partendo che sarei cambiato così tanto, invece il cambiamento è stato irreversibile, radicale. Non ero disposto a riprendere la vita di prima.

Ancora oggi ho problemi a mediare tra due culture continuamente, sia quando vivo qui e anche quando vivo lì. E’ difficile esser un po’ sospeso tra due mondi e si fa un po’ di fatica a passare dall’uno all’altro. Io ho sempre cercato di armonizzare le due dimensioni e soprattutto ho tentato di rispettarle entrambe, nonostante fossero così diverse.

Quando sono tornato la prima volta dall’Italia e sono tornato a vivere a casa, l’ho fatto con il desiderio di portare dei cambiamenti sia nella mia famiglia e nella società, perfino nel mio stesso quartiere.

Per questo ho fondato “Lighting the candles”: per aiutare la società non solo a livello culturale ma anche economico. Volevo tentare di rendere le persone più indipendenti, in modo diverso e ritagliato sui loro bisogni.

I bambini con i campi-lavoro, le donne con i corsi gratuiti di inglese, i disabili insegnando loro che potevano aspirare ad una vita piena, ovvero aspirare a lavorare autonomamente e non sentirsi più un peso per le loro famiglie. Non era facile avviare questa attività perché vi erano molte resistenze mentali nella società.

Non è stata considerata un’opportunità da tanta gente?

Il ringraziamento è venuto da persone che volevano cambiare, ma anche per loro non è stato facile. Considerate che qui le persone continuano a vivere in famiglia anche dopo che si sposano e quindi sono legate tutta la vita alla famiglia d’origine e hanno meno indipendenza.

Io ho creato dei gruppi misti, mescolando giovani ragazzi e ragazze; ho preso i ragazzi dei campi profughi e organizzato campi di lavoro: l’idea era proprio di lavorare con le categorie sociali svantaggiate, i ragazzi dei villaggi, dei campi profughi, per avviare un cambiamento radicale nella società. Perché la vita in Palestina non è facile..la Palestina è una grande prigione.

Il fatto di vivere in una prigione spinge la gente a vivere in modo regressivo, perché tanto comunque non si hanno opportunità.

Quando si vede ovunque un’enorme difficoltà di essere una persona libera, ci si scoraggia.

L’oppressione viene dalla occupazione israeliana o anche dalla società ?

C’è una parte che è culturale e viene dalla Palestina. Noi non vogliamo essere così ma tutto ci spinge ad essere così, siamo nati così e rispettiamo i genitori e la tradizione.

La società è molto coesa, omogenea a livello sociale e molto chiusa. Se si guarda anche ai villaggi vicino a Betlemme, i disabili non godono di nessun diritto umano. Sono chiusi non solo nelle stanze ma nelle cantine. Io ho lavorato con molti disabili che vivevano situazioni ancora più difficili della mia nelle campagne, e ho provato ad aiutare tutti quelli che ho potuto, ma è difficile riuscire ad aiutare tutti.

I disabili qui non hanno assistenza sociale, non hanno pensione, né cure né assistenza gratuite. Né qui né in Israele. Solo le organizzazioni internazionali aiutano un po’, temporaneamente, alcune persone. Qui l’assistenza medica è tutta privata: se hai soldi ti puoi curare, altrimenti niente. Quasi tutti i disabili non hanno lavoro: formalmente esiste una legge che protegge i disabili, ma non è applicata. Il 5% dei disabili dovrebbe essere integrato lavorativamente nella società.

Non ci sono programmi per l’educazione, per insegnare anche ai genitori e agli insegnanti quali tipi di problemi possano affrontare con giovani disabili, come aiutarli nelle scuole o a casa.

Mi chiedo che pensi la gente quando oggi ti vede così indipendente, così ottimista, a dispetto di tutto..

Io sono il lato positivo di questa storia: ho trovato il mio ottimismo nella forza di vincere la sofferenza. Se non si ha la possibilità di un cambiamento, non si trova quella forza. In questo sono stato anche fortunato: ad esempio nell’avere la possibilità di venire in Europa, uscir fuori di casa, imparare altre cose, tra cui l’inglese che ho poi avuto modo di praticare con tutti i volontari internazionali e gli amici che ho incontrato a Betlemme.

Le lingue danno tante opportunità nuove ed ognuna ha la sua storia: l’inglese l’ho appreso al centro di riabilitazione e mi è servito per i progetti e per qualsiasi contatto internazionale, per avere una comunicazione diretta, è stato essenziale. Il mio italiano viene invece dalla sofferenza dell’ospedale e siccome lì nessuno parlava inglese, mi sono sforzato d’impararlo per comunicare.

La tua associazione “Lighting the candles”, che obiettivi si propone?

E’ nata con l’idea di avviare un servizio di assistenza sociale: quando sei una persona nata senza niente, vuoi diventare qualcosa e migliorare la tua situazione personale e quella degli altri che ti circondano. Conoscere persone, aprire la società e un varco per tutti i Palestinesi svantaggiati, incentivarli a sviluppare le loro potenzialità e a non arrendersi.

All’associazione lavoravano sia Palestinesi che volontari internazionali. Venivano anche ebrei: amici che pensano di poter dare un contributo e credono anche nella lotta per la difesa dei diritti umani dei Palestinesi. Insieme, cerchiamo di dare una speranza a queste persone, una speranza d’andare avanti.

È stato molto importante, e principalmente per me: la disabilità non è un ostacolo all’autonomia, alla dignità, nemmeno qualora si trattasse di un problema mentale: si può sempre dare una forma alla propria vita e per far ciò è necessario avere delle opportunità, sentire che si può essere utili, che ce la si può fare, esattamente come avviene per le altre persone. Tutti hanno bisogno d’aiuto.

Il “Muro” opprime i Palestinesi, i checkpoints limitano la circolazione anche all’interno della stessa Palestina: che tipo di impatto hanno queste misure sulla tua vita quotidiana, quali sono gli effetti pratici dell’occupazione?

Questa storia del muro, certo che ci opprime: è alto 12 metri! E le centinaia di checkpoints disseminati tra Israele e Palestina e all’interno della Palestina ancora di più.

Imprimono un’ancor maggiore difficoltà, a tutti indiscriminatamente: un ostacolo fisico e mentale proprio nell’andare avanti con la propria vita. Ma è importante esser positivi: sperare che le cose possano cambiare, scorgere una luce andando avanti.

Il futuro: come vedi sia te che la Palestina?

Io spero che cambieremo ancora: che avremo il coraggio di cambiare. Spero anche che ci sia la pace, magari attraverso una soluzione creativa.

Con la volontà delle persone si può fare molto. Personalmente, la mia forza viene da un’anima complicata, che pensa e riflette prima di fare ogni cosa e che pensa sempre a come far pendere la bilancia positivamente.

Occorre forza, sia nella vita individuale che collettiva, e coraggio. La situazione politica ha bisogno di un grande cambiamento, esattamente come l’ha avuto la mia vita.

Mi auguro una Palestina più libera, anche se c’è bisogno di un miracolo.

Mi piacerebbe poter viaggiare liberamente, così come mi piace andare in giro per l’Italia, mi piacerebbe farlo nella mia terra, senza che ad ogni metro mi chiedano continuamente il passaporto.

Quando torno qui mi chiedo quale sia la mia identità: perché l’ho persa una prima volta come persona disabile e una seconda come Palestinese.

Ho affermato la prima dimostrando che esistevo e che aspiravo alla stessa vita delle altre persone, adesso vorrei che anche la mia terra conquistasse una propria identità e la possibilità di decidere davvero come vivere e come svilupparsi autonomamente.

by Claudia De Martino

From isolation to disability union leadership

25 Aug
Hamdan Jewei works to highlight the conditions of disabled people living under Israeli occupation. (image courtesy of Hamdan Jewei)

Hamdan Jewei is a 26-year-old Palestinian with six brothers and three sisters, living with a physical disability in the al-Doha village near the city of Bethlehem in the occupied West Bank. Jody McIntyre interviewed Jewei for The Electronic Intifada:

Jody McIntyre: How does the Israeli occupation make life more difficult for disabled people living in Palestine?

Hamdan Jewei: Living under occupation is a constant challenge for anyone. One aspect of the occupation here are the hundreds of checkpoints which control our lives. As a disabled person, if you need to get medical treatment outside of Bethlehem, in Ramallah or in Nablus, you have to pass through checkpoints and possibly face hours of waiting and delays, which can be especially difficult for people with mobility difficulties.

I remember once, just before the second intifada, I was taking a bus from Ramallah to Bethlehem, through Jerusalem, and we were stopped at a couple of checkpoints. At one of the checkpoints, the soldier stopped the bus, and out of all the passengers, he only asked me to get out of the bus. I told him, look, I am using crutches to walk, you can see I’m a disabled person, so why are you asking me to get off the bus? And he said, because you are disabled, get off the bus. So I jumped down from the bus; it was difficult for me to get down because of the height, and of course the bus drove away. The soldier told me to leave my crutches on the ground, but I told him that without the crutches I would not be able to stand, so bring me a chair and I will give you the crutches. So he did, and then I asked him what they wanted to do with my crutches. He said, look, you might be a disabled person, but we consider you as the most dangerous people. He told me that I could be carrying something within my crutches which could be a danger to the security of the State of Israel.

It’s also a problem at the borders; when I used to have metal in my legs from operations I’d had, soldiers at the Allenby Bridge crossing to Jordan would strip-search me, put me through every procedure … anything to humiliate me.

JM: What are your memories of the second intifada which began in September 2000?

HJ: For me, it was a nightmare. I lost a couple of friends. I had one friend called Jihad who had a problem with his dialysis, and had to go to the hospital on a regular basis to have it cleaned up. He was living in Beit Fajjah, and we were all under curfew at the time, so when he attempted to go to the hospital he was stopped at a military checkpoint and forced to turn back. He had no contact with his family either, so he had no other choice but to go home and sleep. As he slept, the urea poisoned his blood, and he fell into a coma. He never woke up again. After members of his family forced their way into his home and got an ambulance to take him to hospital, he spent nine days there before he died. He was yet another victim of the occupation.

I was living with my family at the time, in Doha. But this time, all of my family were imprisoned, just as I had been imprisoned as a child.

JM: Tell me about your early life as a child growing up with a disability.

HJ: Actually my life as a disabled child wasn’t easy … unfortunately I was a victim of certain traditions. For disabled children in Palestine, especially in the small villages where there is sometimes a lack of education and awareness, this means that you bring a shame upon your family. So for a family who has a disabled child, instead of nurturing them, they feel a need to hide the child from society. Another aspect of the problem is that disability is looked at as a genetic problem, so if, for example, my brother wanted to get married to a girl from another family, and the girl’s family was to see that we had a disabled child in our family, he would be rejected as a potential husband.

I was a victim of isolation. I had to be hidden, and so my childhood was spent either in hospitals or rehabilitation centers, or kept in a single room within the family home. I was in hospitals up till the age of three, when I was transferred to this room at home, where I would spend the next nine years. The only times I would be allowed out of the room was either to go the bathroom, or if there was no one in the house, if the family had gone out to attend some wedding or social occasion, which I, of course, was never allowed to attend.

I didn’t have much to do growing up in that room, so I began teaching myself things. For example, I learnt to write on my own. I had a small television in the room so occasionally I watched cartoons, but I spent most of my time writing. I fell in love with decorative writing, and decorating my Arabic letters, and gradually I began to write poems. I wrote poems about the situation I was in; for example, I had one called “Isolation,” that was one of the first poems I wrote, and I had another called “The Last Moment,” which I wrote at a time that I was considering committing suicide. I also wrote poems about liberation and freedom. I was living in a prison, so I didn’t know what I could do apart from expressing my feelings through these words. I wasn’t writing poetry every day, but at my lowest points, when I felt that I was really destroyed.

My relationship with my family wasn’t good … my brothers in particular saw me as a strange thing in the house. Especially when I was allowed out of the room, to go to the toilet for example, they thought that the way I walked was really weird. I don’t blame them now … when I looked back to my family’s history, I discovered that when my parents were married when my mother was only 15 years old, and my father was 21 but had began working with his father, selling rubbish in the street, at the age of eight. There was no education in the family, so I understand why my brothers acted the way they did.

I considered committing suicide several times; I needed to talk to people, to express myself, to not feel lonely, but I had no opportunity for communication, not even with my family.

My oldest sister was a little closer to me, or at least closer to the disability I had. She had a sense of humor about things, but didn’t really know what to do with me. The problem was, my brothers were following the traditions of the family, and my other two sisters were too young to understand. Even for my older sister, even if she wanted to change things she couldn’t, because if she wanted to get married, and it was discovered that she had a disabled brother, then she would be discriminated against.

What eventually happened was that at the age of 12, my mother had opened the door of the room to bring me some food, and I attacked her and escaped out of the house. One of the neighbors found me and as he came towards me, saw that I was completely terrified. He took me to his home and I told him the whole story of what had happened … he’d had no idea that there was a disabled child living just next door to him! After a while he took me back home, but my mother didn’t want me. She said that I was a disabled child and therefore useless, and that the neighbor was welcome to take me, so we went back to his place.

Two days later, my mother was listening to a program on the radio, speaking about how important it was to take care of disabled children, and how much of a valued contribution to society they could make if they were only given the opportunity. It was definitely a wake-up call for my mother. She immediately tried to get in contact with the people on the radio show, and she had a simple question to ask them: “I have a disabled child, please can you tell me how to deal with him?” I suppose it was like a first innocent cry for help. There was an immediate response on the radio program, and some people from humanitarian organizations got in touch with my mother, and suggested that she took me to a sports rehabilitation center for disabled people in the YMCA in Beit Jala. At the same time, my mother called the neighbor and asked him to bring me back home.

So my parents took me to this sports center … unfortunately, I wasn’t much of a sporty person. I was much more interested in trying to build up my social network, as I’d never really had any friends or communication with people. I stayed at the sports center for six months, and gradually I began to meet new people, and develop myself both physically and psychologically. By the age of 14, I was appointed project co-ordinator for an Italian organization that was working with the YMCA. I began volunteering for a range of organizations, working with children, disabled people, and in 2000 I joined the Children’s Rights Campaign. In 2003, I was invited to be a part of the international human rights campaign for people with disabilities. A year later, I became a member of the General Union of Disabled People in Palestine.

JM: After you had attacked your mother and escaped from the house, and then went back to live there, how could you forgive your parents?

HJ: At the time, forgiveness wasn’t on my mind, the only thing on my mind was getting my freedom. After my mother had this wake-up call and I went back to the house, she hugged me and apologized, but I couldn’t forgive her immediately. I was a kid at the time. For me, forgiveness came later on, when I started to realize that my family were also victimized by the society they were living in.

JM: Do you think your experience of growing up as a disabled child in Palestine is a unique story?

HJ:I think my story is one of hundreds that we don’t know about. I have personally worked with three cases like mine. One case was when I was working for the General Union of Disabled People in al-Ram, near Ramallah. I was sitting with the president of the office at the time, when a guy walked in and asked to speak with him. The resident asked if I could stay in the room, and the man replied that he didn’t mind, but that we should lock up all the doors and windows, as he wanted to speak about something very important.

The man told us that he had an 18-year-old daughter, and that she had never seen the sun. His daughter was born at home, and after her mother died, he got remarried. He tried to hide his daughter from the eyes of his new wife, but she eventually found out, and told him to keep his daughter hidden in a basement under the house. It was one of the first cases I had witnessed that wasn’t my own.

The next case was a couple of years ago, when a man from one of the villages in south Hebron came to my office after hearing about my story. He was telling me about his 21-year-old daughter, and I asked him if she had a birth certificate. When I found out that she didn’t, I told the man that the first thing he should do would be to go and register her at the Ministry of Civil Affairs, to at least give her the right of existence. Unfortunately he was very afraid, because what he had done is considered a crime under international law. I tried to reassure him that I had some contacts who could help him with the authorities, but he left the office and never came back. I never got to meet his daughter.

These are a couple of the cases I have worked with personally, but I have heard about many, many more.

JM: How do you think this problem within Palestinian society can be combated?

HJ: There are many challenges that we are facing. The first problem is that we are all living inside a giant prison, in the form of the Israeli occupation. Secondly, lots of money has been spent by the Palestinian Authority, but not towards supporting disabled people. Because of this isolation internally, I feel that it is important to spread this message on an international level. I was recently invited by Amnesty International to make a speech in Rome, and this is exactly what I spoke about; not only about the issue as a humanitarian concern, but also about the fact that we are disabled people living under occupation. I think it’s important not to forget that we are all living inside this prison.

JM: How do you think the Palestinian Authority view people with disabilities?

HJ: It’s pretty simple: disabled people in Palestine do not receive any help. The social system here is not functioning, so there is a law regarding the rights of disabled people, but the law is not implemented, and is insufficient in the rights it provides for in the first place. It estimates a figure of 170,000 disabled people living in Palestine; 109,000 living in the West Bank, and the rest in the Gaza Strip, whereas I have read reports which estimate 250,000 as a more accurate figure. Some people who have been injured by the Israeli army are given support, but not all of them.

The government here views disabled people as a poverty issue, so if you are at lowest poverty level, you will receive NIS 96 ($25) per month. That’s not even enough to pay for a day’s transport if you’re in a wheelchair.

JM: I’ve been living in Palestine for nine months of the past year and a half, and I’ve often had difficulties with taking buses because of the attitudes of drivers towards someone in a wheelchair. Have you had similar experiences?

HJ: Absolutely, because unfortunately many people still see disabled people as strange people, or something abnormal. Bus drivers see people in wheelchairs and think, well if I stop for him it will take me so much time and effort to help him and to put his wheelchair on the bus, and it’s not my problem or I can’t be bothered. Just this morning, I tried to stop four buses and they wouldn’t stop for me! One finally did, but even then there is the problem that I find it difficult to get into the back seats, and when I ask the people in the front seats if I could sit there, they will tell me that they’re too tired to stand up, or that it’s too hot, or sometimes they will get so frustrated that they will get up and leave the bus, telling you to pay for their journey as well as yours. Sometimes bus drivers don’t stop for me just because they know that I will ask for the front seat.